da Acque Chiare – marzo 2003

 

LE CAUSE DELLE ALLUVIONI: LA POSIZIONE DEL CIRF

a cura del Direttivo CIRF

 

Le alluvioni sono eventi causati da una molteplicità di fattori, ma è oramai evidente che le cause primarie vanno ricercate nella poco oculata gestione del territorio ed in particolare dei fiumi. Cerchiamo ora di capire il perché.  

 

La gestione dei fiumi

 

L'urbanizzazione, la ricomposizione fondiaria e l'industrializzazione dell'agricoltura agiscono in sinergia nel ridurre l'infiltrazione delle acque piovane e la capacità di ritenzione idrica dei suoli. Abbiamo finito così con l'impermeabilizzare la superficie di quella grande spugna che è il suolo.

La prima conseguenza è che, a parità di pioggia caduta, l'acqua che non viene più assorbita dal suolo raggiunge velocemente i fiumi (in parole povere più acqua in minor tempo), generando piene più elevate che gli alvei non sono più in grado di contenere. Una conseguenza collaterale è la ridotta ricarica delle falde la cui acqua, restituita molto lentamente, alimentava i fiumi nei periodi non piovosi: ne deriva quell'accentuazione delle magre troppo sbrigativamente attribuita alla siccità.

Siccità e inondazioni sono cioè due facce della stessa medaglia: l'acqua che ingrossa le piene, infatti, è la stessa che viene a mancare durante le magre. La nostra imprevidenza ha esasperato il ciclo delle acque: anzi che riempire d'acqua la nostra spugna-suolo nei momenti d'abbondanza, ne acceleriamo lo "smaltimento" al mare (quasi fosse un rifiuto, anziché una risorsa), accentuando così sia le piene sia le magre.

Ma torniamo alle piene: la nostra imprevidenza raggiunge l' irresponsabilità quando, pur avendo accresciuto la probabilità di piene eccezionali, pretendiamo di invadere le aree di pertinenza fluviale (e quindi inondabili) con agglomerati urbani, centri residenziali, commerciali e artigianali. È proprio con questo meccanismo che abbiamo creato e continuiamo a creare il rischio idraulico (è ovvio, ma non guasta ricordare che, finché non ci sono valori a rischio, il rischio idraulico non esiste!).

Finora la nostra unica strategia per ridurre il rischio idraulico si è basata sul tentativo di domare i fiumi, rettificandoli, imprigionandoli tra alti argini, magari di solido cemento.

Il carattere controproducente di questa strategia pare evidente anche ad un bambino: se accelero il deflusso, posso migliorare la situazione sotto casa che era quanto mi preoccupava, ma laggiù, più a valle si ritroveranno un deflusso accelerato, concentrato in tempi minori, con un picco di piena più elevato e distruttivo; cioè, staranno decisamente peggio. In altre parole, il rischio idraulico non è eliminato, ma semplicemente trasferito a valle (senza contare l'aumento del rischio potenziale: la rottura dl un argine alto sei metri è infinitamente più catastrofica di quella di un argine alto un metro). Gli amministratori del centro abitato successivo, sorpresi dall'inaspettato incremento del rischio, con altrettanta solerzia, risolveranno il problema scaricandolo ancora più a valle. Questo miope "scaricabarile" ingenera un circolo vizioso che divora risorse economiche per ridurre il rischio loCale, ma fatalmente accresce il rischio complessivo,

Ciò nonostante, da decenni, con una ostinazione degna di miglior causa, per "guadagnare" terreno o per "ridurre il rischio", continuiamo a restringere gli alvei, tagliare meandri, rettificare tracciati, innalzare argini, Così i nostri fiumi sono oggi più stretti, più corti e con maggior pendenza di quanto fossero anche solo qualche decennio fa. È facile verificare su carte del Reno, del Danubio, del Po e di altri fiumi l'evoluzione (o meglio l'involuzione) che tali fiumi hanno subito nel corso dei secoli, attraverso una sequenza impressionante di restringimenti, rettifiche e arginature. Ed è anche facile verificare la maggior frequenza e intensità di eventi denominati "calamità naturali", in cui la responsabilità "naturale" si affievolisce sempre più a fronte di quella antropica,

Perché allora gli organismi preposti alla gestione dei fiumi e del territorio annesso continuano a praticare interventi che, alla luce della teoria e dell'esperienza, si sono rivelati fattori di aumento del rischio idraulico?

Una prima risposta sta nella stessa formulazione della domanda: quasi mai l'organismo che gestisce i fiumi era (ed è) anche quello preposto alla pianificazione del territorio. Solo recentemente, e con immense difficoltà, in Italia qualche Autorità di bacino sta cercando di interrompere la dannosa sinergia tra gli interessi edificatori e l'approccio di difesa dal rischio basato su interventi fluviali unicamente locali. Ma il nodo non sciolto resta l'incapacità di affrontare in modo strutturato e trasparente proprio i conflitti di interesse sempre presenti (tra insediamenti di monte e quelli di valle, o tra occupazione di spazio, protezione dalle piene, consumo di inerti, costi, ricreazione e conservazione della natura, ecc.) dei quali la pianificazione territoriale è quasi sempre una figlia succube o, al più, una confusa interprete.

Una seconda risposta sta nella mancanza di una immagine di riferimento diversa da quella del "fiume domato". Manca un modello mentale che sappia guidare la nostra gestione dei fiumi e del territorio verso un assetto più soddisfacente, da tutti i punti di vista, un assetto di "fiume riqualificato".

Questa nuova immagine comprende non più solo il fiume, o peggio un suo tratto locale, bensì l'intero bacino, e vede il fiume: con spazio per divagare ed esondare in modo diffuso, non drammatico; non avido di erodere, ne sazio da sedimentare più di quanto asporti; che non scenda in magra sotto la sua portata minima naturale, ne mantenga una portata artificialmente costante; con acqua pulita; con vita abbondante, diversificata, naturale e vegetazione autoctona ed equilibrata, rigogliosa o parca, a seconda del fiume e del contesto ambientale; un fiume in aperto rapporto con il paesaggio e l'uomo, non nascosto o isolato; un fiume dotato di carattere e bellezza.

Ne consegue che la strategia per difendersi dalle inondazioni deve puntare decisamente sul rallentamento dei deflussi, anziché sulla loro accelerazione. Infatti, se riusciamo a "diluire" il transito della piena in un tempo maggiore, la portata di picco sarà ridotta, risparmiando beni, attività e vite umane. Per rallentare il deflusso occorre invertire rotta, restituendo ai fiumi spazio e un tracciato non più rettificato, incominciando dal reticolo minore per arrivare al fiume vero e proprio. Questo non significa disseminare il territorio di "casse di espansione" (intervento chiave in molti piani delle Autorità di bacino), intese come enormi vasche da bagno erbose, di sezione regolare, con imponenti opere di regolazione idraulica: opere dagli ingenti costi di realizzazione e gestione e di impatto elevatissimo sul territorio antropico e naturale.

Rallentare il deflusso significa soprattutto conservare aree inondabili o, all'interno degli argini (ove ormai non più eliminabili), ampie aree golenali da destinare a zone naturali, a produzione di biomassa legnosa, a zone umide per la fitodepurazione, ad attività agricole o turistiche a basso impatto: attività assolutamente compatibili con una periodica inondazione, che permettono di rendere economicamente sostenibili soluzioni progettuali che altrimenti costituirebbero un gravoso onere per la collettività.

Significa prima ancora affrontare e risolvere i conflitti di interesse con un approccio pragmatico e democratico basato sulla negoziazione e guidato dal principio di non imporre, ma cercare il consenso responsabile. Occorre cercare di far ricadere i costi esterni (costi di difesa, maggior rischio) sugli stessi beneficiari di un'azione (un'altra versione del principio chi inquina paga), e allo stesso tempo riconoscere il ruolo svolto dai gestori diffusi del territorio e compensarne l'attività. Questo può portare, per esempio, a smettere di difendere a tutti i costi con arginelli o difese spondali ogni campicello agricolo dal relativamente basso valore economico intrinseco, destinandolo, invece, a contribuire alla laminazione diffusa delle piene. Una funzione che va appunto riconosciuta a retribuita, o almeno compensata (per esempio con un contratto e un fondo che assicurino l'immediato pagamento di una quota stabilita in occasione di ogni evento).