da ecoinformazioni
del 17.04.2004
L’informazione negata: dal caso Ilaria Alpi alla guerra
Sappiamo
o non sappiamo cosa succede realmente nel mondo? E di chi è la colpa di questa
assenza di verità? Queste le premesse dell’incontro L’informazione negata:
dal caso Ilaria Alpi alla guerra, promosso venerdì 16 aprile a Crevenna di
Erba dal Circolo Ambiente di Merone e dall’associazione Telaio del cielo, in un
simbolico tributo a chi per la verità è morta: Ilaria Alpi, nel decennale del
suo assassinio.
Se
Ilaria Alpi non avesse creduto nella possibilità di dire la verità, di far
sapere agli italiani cosa stava realmente accadendo in Somalia, forse, non
sarebbe nemmeno stata uccisa. Invece dieci anni fa la sua sete di informazione
trasparente, in qualche modo, è stata punita. Per questo, per parlare di
informazione negata, oggi, a dieci anni dall’omicidio della giornalista Rai, il
Circolo Ambiente di Merone, insieme all’associazione Telaio del cielo, ha
scelto di partire dall’esperienza della Alpi per sviluppare il discorso insieme
a due giornalisti, Bruno Perini de Il Manifesto e Roberto Festa di Radio
popolare, nell’incontro promosso venerdì 16 aprile a Erba: L’informazione
negata: dal caso Ilaria Alpi alla guerra.
L’appuntamento
si è aperto con la proiezione di un filmato tratto da Veleni di stato, una
puntata del programma di RaiTre Primo piano, dedicato all’indagine sulla mala
cooperazione internazionale che Ilaria Alpi stava conducendo prima di essere
ammazzata in Somalia.
Un esempio, quello della
giornalista Rai, ancora più attuale se possibile nei giorni in cui
l’informazione assume un valore forte, nei giorni della guerra in Iraq.
«La
prima vittima in tempo di guerra - ha spiegato Roberto Fumagalli, presidente
del Circolo Ambiente Ilaria Alpi, introducendo l’incontro - è sempre la verità.
La guerra è l’esempio lampante di negazione dell’informazione». Perché in
guerra, si sa, é tutto lecito. Anche le veline scritte e filmate dai militari e
consegnate ai media.
Ma
non solo i modi di fare informazione in questo periodo di guerra sono
discutibili; il punto sono soprattutto i contenuti, in questo clima di
conflitto infinito. «Forse la guerra è iniziata nell’aprile 2003, quando
l’informazione dichiarava l’occupazione e la vittoria della coalizione Usa.
Forse siamo stati presi in giro».
Fatta
eccezione per la stampa non allineata, come Il Manifesto e Radio popolare, come
spiega Gianpaolo Rosso, codirettore di ecoinformazioni e moderatore
dell’incontro, che ha portato poi l’emblematico esempio dello strillo di un
quotidiano locale, all’indomani dell’attacco alle Torri gemelle, con la
dichiarazione del vescovo di Como: «Non porgiamo l’altra guancia, facciamo
tacere i terroristi».
Certo è che se
l’informazione non fosse un potere forte della società contemporanea non si
potrebbe parlare neanche dei suoi “lati oscuri”. «La dimensione simbolica è
importante, - dichiara Roberto Festa, giornalista di Radio popolare -
soprattutto in una democrazia che deve avere un controllo forte dell’opinione
attraverso l’informazione». L’uso dei media in modo strategico ha radici
lontane, insite nelle guerre mosse negli ultimi decenni.
«La
propaganda non l’hanno inventata i nazisti ma gli inglesi nella Prima guerra
mondiale. Nacque infatti in quegli anni un rapporto apposito che doveva in
qualche modo denigrare, mettere in cattiva luce i tedeschi, per esempio
diffondendo la notizia falsa secondo la quale il kaiser avrebbe ordinato la
tortura dei bambini di tre anni. Negli Stati uniti accadde una cosa simile,
così come racconta Orwell in 1984. Dopo Pearl Harbor, per esempio, i
militari bloccarono la telefonata di un inviato americano al suo giornale
sminuendo ed omettendo parte delle perdite avute in termini di morti e danni
materiali».
È
da una sconfitta “storica” degli Stati Uniti che nasce e si sviluppa una
cultura dell’informazione di guerra, intesa come strumento trainante del
conflitto. «Il modello a cui siamo ancora legati in materia di informazione di
guerra è il Vietnam. Nel quadro di questo conflitto, infatti, vi furono dei
grandi errori di comunicazione da parte del governo Usa».
Perché
è importante il Vietnam dal punto di vista mediatico? «Il Vietnam è stato perso
dagli Stati uniti per colpa della stampa: questa è stata la menzogna che è
sempre stata venduta, che è passata. Tutte le guerre successive partono con il
terrore che questa cosa di possa ripetere».
Gli
esempi, come le guerre, non mancano. «Nel 1982 la Thatcher con le isole
Falkland: i giornalisti erano armati, una situazione simile ai reporter embedded
all’esercito Usa in Iraq. Nella prima guerra del Golfo Dick Cheney, attuale
vice presidente Usa, limitò la libertà della stampa: i giornalisti non poterono
parlare con i militari, se non previa autorizzazione formale. Solo tre giornali
americani citarono il governo Usa in tribunale per questa cosa ma non se ne
discusse più, in seguito».
Poi
vi fu l’Afghanistan, e il consolidamento delle dinamiche di imbavagliamento
dell’informazione, fino ad arrivare ai giorni nostri, «alla seconda guerra del
Golfo, ai giornalisti incorporati nelle truppe».
Gli
strumenti, però, si sono affinati, le opportunità di ricerca del vero sono
aumentate. «Oggi ci sono forse più possibilità, con tante nuove realtà come le
agenzie di stampa e internet. L’informazione oggi la si cerca e la si trova».
Chi
fa informazione altra non naviga in buone acque, come sottolinea Bruno Perini,
giornalista de Il Manifesto: «L’informazione è un tema che riguarda
tutti, non solo gli addetti ai lavori, in una società dominata dai mezzi
d’informazione. Per tutti quelli che vanno contro corrente rimanere a galla è
difficile».
Intanto proprio Il
manifesto compie trentaquattro anni il prossimo 27 aprile. «Penso che
quella de Il manifesto sia un’esperienza irripetibile. Le realtà contro
corrente fanno una vita durissima: perché c’è sempre il rischio
dell’omologazione, dato dal fatto che bisogna stare sul mercato e contemporaneamente
fare informazione alternativa. Oggi, poi, fare un quotidiano costa tantissimo».
E per mantenere l’indipendenza bisogna fare sacrifici. «Al Manifesto lo
stipendio di un giornalista di media esperienza è la metà rispetto a quello di
un giornalista dello stesso livello in qualsiasi altro giornale quotidiano
nazionale. Siamo un giornale povero ma che ha saputo preservare l’autonomia di
giudizio: possiamo sbagliare ma nessuno ci ha suggerito quello che diciamo».
Dal
27 aprile ci sarà un restyling del quotidiano comunista, con l’avvio di
una politica di promozione e due grandi novità. «La prima è un’inchiesta in più
ogni giorno, la seconda è la pagina dei racconti, con due giornalisti che
risponderanno alle lettere dei lettori. Inevitabilmente in questo periodo entrambi
i due nuovi elementi riguarderanno la guerra». Guerra e ancora guerra. «Ma
dobbiamo parlare d’ informazione negata in tempo di guerra e in tempo di Pace».
Un
tema caldo, quello delle comunicazioni, diventato un cavallo di battaglia a
destra come a sinistra. «Gran parte degli investimenti è per le
telecomunicazioni; è un settore decisivo, strategico. Il controllo delle
telecomunicazioni è sinonimo di controllo delle “teste”, del consenso, del
potere. Rispetto a questo dovremo essere particolarmente preoccupati. Viviamo
in un Paese in cui c’è un signore che è al governo e controlla l’informazione
più “preziosa”, la televisione». Poche persone leggono la carta stampata, come
testimoniato da Perini: «in una conferenza in un liceo milanese, quando chiesi
quanti fossero i lettori di quotidiani, alzarono la mano in cinque».
La
televisione resta così il medium preferito dagli italiani. «In tempo di guerra
le televisioni mandano messaggi molto più sofisticati della stampa, molto più
rapidi. L’utente televisivo non si accorge che alcune notizie non sono state
date».
Una
soluzione possibile, anche se espressa con non molta convinzione, potrebbe
essere quella di riunire gli sforzi dell’informazione alternativa. «Gli
esperimenti come Radio popolare e il Manifesto, potrebbero comunque
rappresentare una grande forza d’urto, se la sinistra lavorasse insieme…»
Da
un migrante intervenuto dal pubblico è arrivata la denuncia dei rischi
dell’informazione “di massa” in tempi di guerra: «I media non devono creare
pericoli. Perché un terrorista è un nemico di tutti. L’informazione negata è
pericolosa, e lo è anche per la cultura italiana, per i giovani italiani». Un
pericolo confermato anche da Perini. «“Terrorismo = Islam” è un’equazione molto
indotta dalla stampa. L’11 settembre ha fatto effettivamente precipitare la situazione. L’informazione ha
avuto la colpa di non raccontare delle cose che accadono nel mondo. Un esempio
sotto gli occhi di tutti è l’Africa: se ne parla solo quando ha a che fare con
l’occidente».
Quale futuro allora per
il mondo dell’informazione? «Sono ottimista, credo che comunque non tutto sia
controllabile. Ci sono stati dei segnali dopo l’11 settembre, basti pensare
alle contraddizioni all’interno della stessa stampa Usa». Oggi, per fortuna, è
difficile nascondere una notizia. Cosa si può fare allora? «Difendere le “isole”.
E usare l’arma più feroce contro l’informazione di regime: lo spirito critico».
Capacità di interpretare, di costruirsi una propria chiave di lettura della realtà sembra essere la risposta condivisa da Festa. «Occorre un atteggiamento laico, di distacco da tutta l’informazione. Tutti neghiamo l’informazione, la verità è comunque un’approssimazione». E se la negazione dell’informazione è alla base dell’informazione stessa allora sta al fruitore della comunicazione il compito – arduo – di scegliere le notizie e le letture dei fatti. «Ci si deve creare dei propri percorsi per arrivare ad una verità probabile».
Uno
degli ostacoli principali dei media è il ruolo, o meglio il potere degli
sponsor, che fanno pressione sull’informazione secondo pure leggi di marketing:
«è l’opinione media che fa vendere i prodotti».
E
se i giovani non leggono, forse va fatta un po’ di autocritica. «i media sono
noiosi – ha denunciato Festa - Ma non è detto che chi non legge la carta
stampata non si informi; ci sono altri mezzi di informazione, più veloci, come
internet».
Restano
i problemi irrisolti di tante, troppe notizie che nessuno dà. «Non solo le
informazioni ci vengono riferite in modo distorto – ha concluso Gianpaolo Rosso
- ma il problema è anche quello di non avere affatto informazioni su parti
della realtà, come accade per l’Africa. La mancanza di informazione, quindi, è
un vincolo più forte della censura sull’informazione stessa».
Un
quadro forse negativo ma contrassegnato da un ottimismo di fondo. Qualche
speranza per il futuro c’è, realizzabile non attraverso una sola voce ma
attraverso tante fonti, per «moltiplicare i soggetti che danno le
informazioni». Anche perché da Genova in poi, con i movimenti che “si sono
fatti sentire” , leggere e ascoltare, qualcosa è cambiato.
[Barbara
Battaglia, ecoinformazioni]
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